Dedicato a chi mi chiede che mestiere faccio
Questo è il primo post di una serie in cui progressivamente delineo i contorni del mio lavoro... o almeno ci provo!
Un dialogo sulla mia professione con un interlocutore-tipo va più o meno come segue:
– Di cosa ti occupi?
– Sono una progettista.
– Ah, tipo architetto?
– Non proprio. Progetto processi e servizi, perlopiù.
– In che senso?
– Collaboro a progetti multidisciplinari di innovazione sociale...
– Cosa vuol dire?
Vuol dire che il mio lavoro è difficile da raccontare. Ma ci provo: quanto segue è un tentativo di spiegare cosa vuol dire, per me, essere una designer che lavora a progetti d'innovazione sociale.
Innovazione sociale e relazioni
Voglio cominciare offrendo una definizione di innovazione sociale: si tratta di processi di ideazione, sostegno e attuazione di risposte innovative ai bisogni sociali. Su come nascano e si sviluppino questi processi, però, ci sono diversi punti di vista. Uno di questi si concentra sull'azione di un numero limitato di individui "eroici" che cercano di trovare delle soluzioni efficaci ai problemi della società; è la definizione che più frequentemente individua come "innovatori sociali" gli imprenditori o le imprese sociali. Un'altra prospettiva individua come determinanti dell'innovazione sociale non gli individui, ma le condizioni socio-culturali, le strutture sociali (le comunità, le istituzioni, le tradizioni, eccetera) che favoriscono oppure ostacolano l'innovazione sociale. La mia posizione sta nel mezzo: mi interessa la relazione tra le persone e le strutture sociali di un dato contesto. Sposo la definizione secondo cui l'innovazione sociale emerge dall'interazione tra le persone, è determinata da uno sforzo collettivo di creazione di senso, ed è un processo in cui la società narra e trasforma se stessa, intrecciando azioni e circostanze in una trama complessa. L'innovazione sociale comincia con l'emergere, in maniera più o meno fortuita, di attori sociali che hanno uno o più interessi in comune; questi attori stabiliscono degli obiettivi condivisi, elaborano idee e soluzioni, e infine le mettono in pratica e le sistematizzano. Il prodotto di questo processo spesso non è un oggetto, maun'interazione sociale o una pratica. Insomma: le relazioni sono importanti per l'innovazione sociale perché essa nasce dalle relazioni, e crea nuove relazioni. Le relazioni sono sia la precondizione che il risultato dell'innovazione sociale.Gli studi sulle relazioni nell'innovazione sociale non mancano, vista l'importanza di queste ultime; ma la ricerca sul tema è spesso svolta in contesti di management organizzativo, d'impresa sociale, di gestione dei rapporti con le persone coinvolte in un progetto –tutti approcci funzionali, strumentali, che riconoscono il valore delle relazioni perché queste, se gestite in maniera fluida ed efficiente, faciliteranno il raggiungimento di un obiettivo. Ma le relazioni non sono strumenti, non sono il mezzo per arrivare al fine: sono intrecci di sentimenti, emozioni, fatti sociali e culturali. E non parlo solo di relazioni tra esseri umani, ma del complesso e interdipendente sistema composto da umani, non-umani, esseri viventi e cose – un sistema in continuo cambiamento, la cui gestione è ben al di là delle nostre capacità, e senza il quale non esisteremmo. Si tratta di dare senso e forma al cambiamento, più che di governare rapporti per raggiungere obiettivi prefissati.
Ok, ma che c'entra il design?
Chiariamo subito un aspetto importante: i designer non sono solo i professionisti che progettano oggetti (fisici o digitali) esteticamente piacevoli e facili da utilizzare. La parola design in italiano fa subito venire in mente una certa idea, che il personaggio di Massimiliano Fuffas (interpretato da Maurizio Crozza) ben rappresenta: Se si capisce, è una sedia; se non si capisce, è design. Per evitare incomprensioni, raramente mi presento come designer a un interlocutore italiano, preferendo la traduzione del termine in "progettista". Il designer, infatti, pensa per progetti; può immaginare una variazione, un cambiamento nello stato delle cose, e come realizzare quel cambiamento. Certo, si può progettare un prodotto, ma si possono progettare un servizio, un evento (o una sequenza di eventi), un'interazione, un sistema, una collaborazione, insomma, non si parla solo di sedie! Per fare un esempio, ho lavorato nella progettazione dei servizi socio-sanitari di un quartiere di Londra. Contribuivo, assieme a tanti professionisti e agli stessi utenti dei servizi, alla progettazione dei servizi locali del sistema socio-sanitario (che comprende ambulatori, ospedali, centri diurni, cooperative sociali, associazioni, scuole, insomma un sistema gigantesco). Le attività che l'immaginario collettivo più facilmente associa al designnon fanno parte della mia esperienza professionale. Il mio ruolo consisteva nell'incontrare i pazienti; nel parlare con medici, infermieri, operatori sociali; nell'incontrare amministratori ospedalieri e funzionari del Comune; nel coinvolgere professori e studenti universitari in progetti di ricerca. Cioè passavo il tempo a costruire relazioni e a cercare di dare senso e forma a un sistema insieme ad altre persone, con l'obiettivo di rendere quel sistema più inclusivo ed efficiente.
Ah, queste nuove professioni!
A questo punto il mio interlocutore-tipo potrebbe commentare: "Ecco, sei una di quelle che fanno un mestiere nuovo, per cui quasi non c'è ancora un nome". Non si sbaglia: l'interesse dei designer per l'innovazione sociale è indubbiamente cresciuto negli ultimi anni, anche se è difficile indicare con precisione le cause di tale fenomeno. Un'ipotesi è che il progressivo smantellamento del welfare in molti stati europei abbia posto nuove sfide sociali da affrontare attraverso la creazione di iniziative private o semi-pubbliche, e che i designer si siano inseriti in questo vuoto di mercato.
Ma limitarsi a questa prospettiva sarebbe riduttivo. Nel 1970 Victor Papanek, nel suo libro Progettare per il mondo reale, scrive:
La progettazione deve diventare un mezzo interdisciplinare innovatore, altamente creativo, capace di rispondere ai veri bisogni dell'uomo. [...] Il progetto può e deve diventare un mezzo con il quale i giovani possono partecipare alla trasformazione della società.
Papanek sostiene un cambiamento del ruolo del designer: da specialista verticale a generalista orizzontale, sensibile ai contributi diversi di un insieme di persone e discipline e capace di sintetizzarli in progetti significativi a vantaggio della società. Per Papanek, il ruolo del progettista non può essere limitato a un contributo specialistico, ma bisogna riconoscere che:
Ogni uomo è progettista. Tutto ciò che facciamo è quasi sempre progetto, proprio perché il progetto sta alla base di ogni attività umana.
Un'idea ripresa da Ezio Manzini nel suo libro Design, When Everybody Designs che tratta, appunto, di design per l'innovazione sociale.
Il paradigma dominante
Le idee di Papanek, però, per ora non sono riuscite a imporsi. Ha prevalso invece il paradigma della progettazione che vede l'applicazione di metodi, strumenti e tecniche isolate con l'obiettivo di produrre soluzioni "replicabili e scalabili" a problemi sociali. Gli esempi di modelli, casi-studio e toolkit sono molti: la guida Design for Social Impact, il Social Design Methods Menu, il Collective Action Toolkit, la Field Guide to Human-Centered Design. L'enfasi posta sull'applicazione di un approccio standard alla progettazione dà all'attività del progettista un'aura di universalità scientifica e presenta il designer come un personaggio obiettivo, culturalmente neutro, una specie di operatore intercambiabile che applica tecniche specifiche per risolvere problemi. Ma persino configurare la progettazione come un'attività di problem-solving significa dare al progettista il potere di individuare problemi e formulare soluzioni: un'attività tutt'altro che neutra, anzi, profondamente politica! Basta considerare i più diffusi criteri di valutazione dei progetti d'innovazione sociale da parte di enti valutatori e finanziatori per rendersi conto dei risvolti inquietanti del paradigma di progettazione appena descritto. La crescita economica, la scalabilità e la replicabilità delle iniziative d'innovazione sociale sono spesso considerati gli unici indicatori del loro successo e del loro impatto. Così, si rischia di mettere in secondo piano – o addirittura di cancellare – altri aspetti fondamentali della progettazione: la sua risonanza culturale, la capacità di trasmettere conoscenza e, appunto, la capacità di comprendere e creare relazioni.
Il designer "a forma di T"
Papanek scrive che la progettazione deve essere significativa. Il designer non deve soddisfare esigenze e desideri evanescenti, ma agire con la consapevolezza che tutto ciò che progettiamo finisce per progettare noi. Progettare ambienti, oggetti, esperienze, modi di ottenere e processare informazioni, eccetera significa progettare la nostra percezione, la nostra realtà, e noi stessi.
Abbiamo già individuato l'esistenza di una tensione tra la profondità e l'ampiezza delle competenze dei designer. Il concetto di "designer a forma di T" – in cui il tratto verticale della T simboleggia la sua specializzazione, quello orizzontale la generalizzazione – mira a integrare questi due aspetti presentandoli come interdipendenti. Ciò che accomuna le iniziative di innovazione sociale è un processo di progettazione aperto, dialogico, basato sull'interazione (talvolta collaborativa, talvolta agonistica) tra diverse organizzazioni, enti, comunità, persone, luoghi, tradizioni, pensieri e mondi. I progetti si intrecciano e danno forma a nuovi modi di essere e dunque a nuovi progetti. Il designer "a forma di T", per me, è quello che riesce a combinare la sua specializzazione verticale con una consapevolezza della complessità e un desiderio di entrare in relazione con essa, senza avere la pretesa di "risolverla".
Due chiacchiere al bar
Questa è la risposta che darei, per ora, a chi mi domanda che mestiere faccio. Per fare bene il mio lavoro, credo occorra mettere continuamente in discussione i suoi stessi fondamenti. Ciò significa che c'è ancora molto da fare per arrivare a una definizione da "due chiacchiere al bar". Ma in fondo è anche per questo che scrivo.
Riferimenti
Cajaiba-Santana, G. (2014). Social innovation: Moving the field forward. A conceptual framework. Technological Forecasting and Social Change, 82(1), 42–51.
Choi, N., & Majumdar, S. (2015). Social Innovation: Towards a Conceptualisation. In S. Majumdar, S. Guha, & N. Marrakath (Eds.), Technology and Innovation for Social Change (pp. 7–34).
Manzini, E. (2015). Design when everybody designs. Cambridge, MA, USA: The MIT Press.
Mulgan, G. (2007).Social Innovation: What it is, why it matters and how it can be accelerated.
Papanek, V. (1970). Progettare per il mondo reale.
Steane, J., Briggs, J., & Yee, J. (2020). T-shifting identities and practices: Interaction designers in the fourth industrial age. International Journal of Design, 14(3), 85-96.